In Italia il pregiudizio dei “figli di…” non si abbatte solo sui figli degli avvocati, dei notai, dei farmacisti e di altre stimate categorie professionali. Anche i figli dei boss, dei criminali associati a cosche mafiose, sono vittime di questo cliché che li inchioda ad un destino da cui, stando alle parole di Dario Cirrincione (relatore di questa conviviale), è difficile fuggire.
Cirrincione, giornalista e cronista alla vecchia maniera (di quelli, per dirla con lui, che “fanno il mestiere consumando le suole delle scarpe”) ha provato a raccontare la realtà di questi ragazzi nel tentativo di far emergere un racconto che vada oltre la narrazione delle gesta criminali del genitore troppo spesso, per una sorta di fascino morboso, oggetto di attenzione mediatica della stampa e del cinema.
Il suo libro “Figli dei boss – Vite in cerca di verità e riscatto” che stasera ci ha presentato è il frutto di un progetto giornalistico partito con un fine meritorio: la riabilitazione di ragazzi che, al di là del negazionismo e del fatalismo tipico di chi vive queste situazioni, hanno deciso di prendere le distanze dal proprio retaggio familiare per intraprendere una vita che noi definiremmo “normale”, fatta di cose che loro, figli di boss, non hanno mai potuto sperimentare. Cose come frequentare una scuola, festeggiare il proprio compleanno con gli amici, pagare una pizza in un locale, chiedere di uscire ad una ragazza. Nel racconto che i protagonisti di queste vicende hanno fatto a Cirrincione emerge questa “normale anormalità” che si esprime nella ordinarietà di storie che di ordinario hanno davvero poco: armi, sparatorie, vendette di famiglie rivali, donne scambiate come merce, vedove bianche con i mariti in carcere.
L’intenzione di voler uscire da tutto questo si scontra però con il giudizio della società, con il menefreghismo di chi aprioristicamente cataloga questi ragazzi come criminali per il principio della mela che non cade mai troppo lontano dal famigerato albero. Vivere con il dito puntato contro, nell’impossibilità di un recupero e di un reinserimento sociale diviene dunque la causa e non l’effetto di tante vite deviate, di tante identità che non sono state capaci di esprimersi nella loro singolarità ed unicità.
Ma nel racconto di Cirrincione non c’è solo questo. E non ci sono (per quanto presenti) gli insulti e le porte in faccia di chi, non capendo dove questo uscire allo scoperto li avrebbe portati, ha deciso di rimanere nell’ombra. C’è invece il coraggio di chi non solo è riuscito a parlarne ma è stato anche capace di riconoscere una parte della sua vita, accettarla ed agire per allontanarsene ed iniziarne una nuova. E c’è infine (e soprattutto) anche la storia di chi ce l’ha fatta ed oggi è riuscito a conquistare quella normalità tanto sognata.
La serata è stata arricchita anche dall’intervento di Luca Durè sindaco del comune di Cisliano che con grande coraggio e determinazione assieme ai suoi collaboratori ed al contributo di Caritas e Libera sta gestendo un immobile confiscato nel 2010 ad un clan mafioso e a tutt’oggi in attesa dell’assegnazione definitiva necessaria per far partire finanziamenti, accrediti e progetti che possano trasformare questo luogo da simbolo della criminalità a baluardo della società civile. Come nel caso di Cirrincione, anche nelle parole del sindaco era facile riconoscere quella “normale anormalità” fatta di occupazioni abusive, sciacallaggi, deturpazioni ma anche di campi di lavoro e formazione e di tanta gente che, senza attendere un segnale convenuto, si è prodigata per restituire un luogo altrimenti perduto ai cittadini ed alla legalità.